L’altare quotidiano
Un agnello brillante
Da piccolo mi regalarono il Game Boy Color mentre frequentavo, se non erro, la terza elementare ed ero spesso risucchiato nel mondo di Pokémon Oro – ci passavo ore a non fare nulla di produttivo. Principalmente vagavo nell’erba alta del Percorso 32, che mescola, all’ambiente pedemontano, specchi d’acqua e una grotta. Uno dei miei ricordi più nitidi riguarda l’aver trovato un Mareep rosa (dunque shiny), evento di cui, solo molti anni più avanti, avrei compreso l’estrema rarità. Ora, a distanza di tempo, sono qui a scrivere questo articolo, che dovrebbe parlare di superstizione, magia e riti, e la memoria delle sensazioni di piacere e libertà che mi dava quel gioco torreggia nella pianura arida dell’ispirazione – ammesso che essa esista – e la lanterna della torre è proprio quell’agnellino. Dunque mi farò guidare da questo.
Il rito crea, il rito toglie, spazio.
Cosa c’era di così appagante in quel mondo di bit, di creature immaginarie, di violenza che, al suo culmine, raggiungeva l’aspetto di gioco e sfida? Più ci penso e più mi convinco che il segreto del successo di quell’universo sia l’ecologia, ma non intesa nel senso più diffuso del termine. Quel prefisso eco si riallaccia al greco òikos, casa. Passeggiare giocando nella mia casa di muratura, a metà tra un riparo ed una prigione, lungo il Percorso 32, significava allargare lo spazio, includere l’immaginario nel “reale”, cioè sentire un mondo più ampio e paradossale, che includesse nel possibile l’impossibile. Insomma, l’accensione della lucina rossa del Game boy dava inizio ad un rito e faceva spazio al non-razionale.
Ora voi penserete di star leggendo quello che è a metà tra una romanticizzazione e il delirio bambinesco di un nostalgico, perciò vi faccio un esempio: pensate a quante persone che vivono in grandi città e metropoli si adoperano per rendere le loro case più verdi. Portano piante, come banani o aghifoglie, nel loro soggiorno, fanno arrampicare sui muri interni varietà multiformi di pothos, disperdono vasetti di caffè e avocado dalle foglie larghe , i loro balconi pullulano di edera, caprifoglio o del più fragile gelsomino.
È il rito di costruzione del tempio nel suo rapporto più stretto con l’etimo greco témno, tagliare, cioè delimitare uno spazio, ma anche eliminare il superfluo e ancora potare le piante che avete incluso nello spazio che vi siete ri-tagliati per voi. L’ecologia è il rito dell’ospite che rende ospitale lo spazio virtuale e reale, per sé e per gli altri.
Ancora: a tutti sono giunti all’orecchio, in maniera diretta o indiretta, i precetti anticonsumisti di Marie Kondo o le terribili voci bianche (etnicamente, ma anche per quanto concerne le frequenze) delle ragazze che, pubblicizzando Vinted, ci invitano a “fare spazio” nell’armadio. Quello che facciamo non è solo liberare spazio fisico, ma svuotare, cioè creare spazio virtuale non per nulla, ma per l’aria, il silenzio, il mistero. Pensate al tempio greco, che doveva rimanere vuoto, ad eccezione di adepti e sacerdoti, per essere riempito dalla divinità in occasione dell’evento che era il rito. O pensate ancora alle dimensioni delle chiese nate dalle basiliche romane.
Qualsiasi rito prevede il tagliare uno spazio per crearne uno nuovo, percettivamente diverso. Lazzaretti, prigioni, campi di concentramento, monolocali e stanze per studenti a Milano (perdonerete la climax dall’umorismo un po’ macabro) non sono solo fenomeni architetturali, catastali. Sono veri e propri riti di assoggettamento, isolamento, sfruttamento che si collocano agli antipodi degli esempi positivi prima proposti.
L’Albania scaramantica e litigiosa
La prima volta che ho provato a tagliarmi le unghie, tronchesino alla mano destra, partendo dal pollice della sinistra, mia madre mi ha gridato contro come se stessi facendo qualcosa di terribile. “No! Kulini, devi partire dal mignolo della sinistra e arrivare a quello della destra, altrimenti porta male!”.
La sua faccia era terribilmente seria e io ho conservato il ricordo di quel grido dentro di me.
Da prescrizione è diventato superstizione, e ora non riesco a contravvenire a quel primo ordine. Sono passato nel mezzo studi scientifici e umanistici e mi pare di aver interiorizzato il razionalismo della cultura rinascimentale e cartesiana/kantiana che sta alla base dell’educazione occidentale. Eppure, nella quotidianità, nelle piccole, stupide azioni che si ripetono ogni giorno o settimana, un certo empirismo derivato dal pensiero religioso prende il sopravvento.
Natalia Ginzburg parla di lessico familiare. Possiamo allargare il concetto e dire che c’è anche una «liturgia familiare». C’è chi, ad esempio nella famiglia di mio padre, per fare la conserva di pomodori verdi, metteva prima l’aceto del sale, e chi, come in quella di mia madre, faceva il contrario. Inutile dire che le liti tra suocere, quando si incontravano, si facevano esplosive. L’ordine che scaturiva dall’ortodossa applicazione di una consuetudine, che aveva origine in un primo successo lontano nel tempo – la conserva è venuta buona facendo esattamente così – risalente a madri o nonne, doveva essere protetto ad ogni costo.
Le liturgie familiari sono varianti diatopicamente differenti, che non sono diverse solo da regione a regione o provincia a provincia, ma addirittura da casa a casa; tuttavia, hanno origine comune da pratiche più antiche. Procediamo con un esempio per me recentissimo.
Tuost, stuort e cu’ a pont
Lo scorso mese mia madre è tornata da Napoli con qualche cornetto rosso in terracotta e me ne ha regalato uno rosso fiammante, dalla forma a metà tra un peperoncino e lo spuntone di un toro. Subito ho chiesto ad una mia amica napoletana come usarlo. Conoscevo benissimo la sua funzione di talismano portafortuna, ma per qualche ragione a me sconosciuta, non l’ho semplicemente condannato ad essere l’ennesimo portachiavi. Ho voluto sapere da una persona del luogo d’origine dell’oggetto se fosse previsto qualche rito con l’amuleto. “Uè amo, questo qua praticamente viene utilizzato come protezione della casa e quindi tipo si fa… con la porta chiusa si traccia una linea dall’angolo all’altro chiedendo protezione… oppure te lo tieni da qualche parte esprimendo desiderio di protezione e fortuna prima di ritirarlo, e quando si rompe la punta significa o che le cattiverie sono state contrastate, oppure che quello che hai desiderato si sta per avverare. Se lo trascini a terra con la punta durante il rito deve rompersi la punta, oppure mettilo appeso dietro una porta. L’importante è che si rompa la punta”.
La variante del rito suggerita dalla mia amica Francesca è diversa da molte altre che ho trovato cercando informazioni online. Tuttavia, costanti sono l’utilizzo del cornetto a scopo protettivo e la sua necessaria rottura.
Per chiudere il cerchio col paragrafo precedente, basti ricordare che già nel Neolitico gli uomini appendevano fuori dalle loro abitazioni i corni degli animali cacciati, pratica diffusa trasversalmente in tutte le culture, da quella ebraica e cristiana, a quella sumera, a quella indù e cinese, a quella degli sciamani (stregoni) siberiani.
«Avevo una speranza; mio Dio, io vivo di speranze!»
Superstizione: la parola, in origine, si riferiva a quelle pratiche rivolte alle divinità per far tornare i propri cari salvi dalla guerra (superstiti). Non è l’etimologia che mi interessa, quanto ciò che essa fa trasparire: la necessità di credere di poter fare qualcosa, di avere un potere trasformante sul futuro, la necessità insomma di magia, ovvero di un’ operazione tecnica che abbia un impatto reale nonostante la consapevolezza dell’inutilità della propria azione sui fatti che saranno storicamente determinati. Per dirla in soldoni, l’uomo è conscio, il più delle volte, di non potere nulla, ma non può soccombere a questa certezza. Si devono cambiare gli assiomi della fisica, insomma si deve inventare e credere in una meta-fisica. Come i romani facevano sacrifici per mariti e figli, così le anime del Purgatorio pregano Dante di intercedere per loro presso i vivi, e chiedere loro di pregare per scontare il tempo nel regno di mezzo, così ancora io accendo un cero, ormai elettronico, al costo minimo di 50 centesimi, per la mia defunta nonna materna, Vasilika, quando capito in chiesa. Gli effetti sono nulli sul mondo esterno e tuttavia in questo caso il rito fa spazio all’interno dell’uomo. E non è necessario arrivare ad una teologia. Il bisogno metafisico è molto pratico, si riscontra ogni giorno e ogni giorno va soddisfatto. Così ci può capitare di leggere di astrologia su Instagram o Twitter e trovare conforto nell’essere compresi, nel sentirci parte di una comunità nata sotto la nostra stessa costellazione. Possiamo usare il nostro segno zodiacale per iniziare una conversazione, per dimenticare la nostra paura di entrare in contatto con gli altri e la loro di essere toccati. Ho letto di persone che hanno tenuto per mesi una pietra nelle mutande; altri che la inseriscono nell’ano e la rimuovono quotidianamente. Sarebbe facile riconoscere in loro qualche bizzarria e spingersi fino al disordine mentale. Io credo che si tratti semplicemente di un bisogno di un empirismo che parta da noi, che non ci sia stato imposto o insegnato.
Insomma, inventiamo e creiamo assiomi, non certo meno utili delle leggi di Newton o Keplero. Assiomi del tutto particolari, che riguardano la coscienza.
Favole buone, favole cattive
Nel Timeo, Platone parla di eikos mythos, di una favola possibile, che accolga entro di sé l’orizzonte della possibilità. Pur considerando lo sviluppo tecnologico e il progresso delle nostre conoscenze, c’è un ambito del sapere che è stato trascurato. A partire da Cartesio si è postulata la certezza della coscienza: l’essenza dell’umanità è il pensiero. Ma chi pensa alla coscienza, chi alla nostra umanità? Questo restringimento della speculazione ha permesso un balzo in avanti in molti ambiti del sapere, a discapito però dell’osservatore stesso. All’osservatore basta essere tale, per sentirsi vivo? Per sentire che la sua vita ha senso, è sufficiente guardare e capire il mondo sensibile? L’orizzonte delle possibilità è stato ristretto, si è smesso di raccontarsi miti e favole che spieghino il mondo, le cosmogonie sono state sostituite dalla teoria del Big Bang, l’evoluzionismo ha rimpiazzato il creazionismo. È avvenuta una sostituzione che ha giovato all’uomo in termini prettamente pratici, di sopravvivenza, ma lo ha anche danneggiato. Mi viene in mente il romanzo Cent’anni di solitudine (1967) di García Marquez, in cui, per un breve ma significativo lasso di tempo, magia, alchimia, scienza e tecnica, credenze popolari e familiari, convivono senza attrito. Questo tempo non è situato in un’età dell’oro passata, a mio avviso, non è un’eco primitivista. Il sudamericano delinea, piuttosto, la fisionomia di un mondo virtuale, in cui riti, atti magici, superstizioni possono convivere con il progresso dell’uomo tecnologico. È una favola del possibile, in cui non vi è lieto fine. E tuttavia basta la sua virtualità, la sua distanza dal presente, a farci comprendere quanto abbiamo bisogno di favole buone, perché il presente assomiglia troppo ad una favola cattiva, ad una favolaccia, per richiamare il recente film dei fratelli D’Innocenzo. Sia ben chiaro che io non auspico a nessuna teologia o metafisica che sostituisca la scienza nel suo ruolo. Piuttosto vorrei che tutti acquisissero una visione più caleidoscopica e meno deterministica del mondo, che fossero pronti ad atti di micro-metafisica, piccoli e grandi riti, che riscoprissero il piacere e la grazia che si riceve nel crearsi una propria ritualità e partecipare a quella degli altri. Una quasi religione molto anarchica.
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