Il mafioso sullo schermo, tra razzismo e glamourizzazione

Il cinema, in particolare il cinema americano, ha contribuito notevolmente alla creazione e diffusione di certi stereotipi su mafiosi che convivono con la ben più prosaica realtà. L’uomo di mafia, quasi in una perversa chiave di lettura dei canoni dell’eroe western classico, porta una divisa immediatamente riconoscibile (un completo elegante e immacolato), segue un imprescindibile codice d’onore che ruota intorno ai legami di sangue e ai patti d’affari, e piega a proprio beneficio la retorica del sogno americano, percorrendo una folle scalata al successo destinata a una tragica fine che ne cristallizza romanticamente la figura nel canone della cultura pop.
Come spesso succede a Hollywood, il mafia movie non è esente da una storia a tratti problematica, che rispecchia e amplifica le tensioni socio-politiche, soprattutto quelle di stampo razziale, che da sempre attraversano gli Stati Uniti. Il mafia movie, infatti, è sia un’evoluzione che un sottogenere del gangster movie, genere nato negli anni ’30, canonicamente con la triade Piccolo Cesare (Little Caesar, 1931, M. Leroy), Nemico pubblico (The Public Enemy, 1931, W. Wellman) e Scarface – Lo sfregiato (Scarface, 1932, H. Hawks). Questi e gli altri film della prima fase del gangster film, conclusasi con l’applicazione del Codice Hays nel 1934, fanno riferimento già a partire dal titolo a una volontà di rappresentare figure negative – il sottotitolo con cui venne talvolta distribuito Scarface è “The Shame of a Nation” – e i loro protagonisti sono spesso modellati su veri “nemici pubblici”, a partire dal re della criminalità sotterranea, Al Capone.
Il carattere negativo di questi personaggi è sottolineato anche dagli attori scelti per interpretarli, tutti caratteristi o specializzati in ruoli di serie B, lontani dagli ideali di bellezza di un Clark Gable o un Gary Cooper, e soprattutto fortemente connotati razzialmente (nel senso piuttosto specifico americano secondo lo è qualsiasi persona non WASP, “White Anglo-Saxon Protestant”). Così, nacque una serie di stelle minori nel firmamento hollywoodiano, destinate a interpretare ruoli ambigui o direttamente negativi per tutto il resto della carriera, dall’ebreo ashkenazita Paul Muni all’irlandese James Cagney, senza dimenticare Edward G. Robinson, attore romeno naturalizzato statunitense che sarà il protagonista, tra l’altro, di uno dei noir americani di Fritz Lang, La strada scarlatta (Scarlet Street, 1945).
Questi gangster, inoltre, presentano una psicologia particolarmente complessa rispetto alle abitudini del cinema classico americano, grazie ad una caratterizzazione che beneficia delle influenze della grande stagione espressionista tedesca e delle teorie freudiane. Ovviamente, questo psicologismo (a volte, in verità, un po’ tagliato con l’accetta) si sviluppa nella direzione della perversione e della devianza dal buoncostume. Ad esempio, il Piccolo Cesare di Edward G. Robinson presenta chiari interessi omosessuali nei confronti dell’amico Joe Massara (Douglas Fairbanks, Jr.), mentre la disfatta di Scarface è inaugurata proprio dalla sua relazione incestuosa con la sorella Cesca (Ann Dvorak).
Ciononostante, i gangster del periodo 1931 – 1934 ebbero un’enorme presa sul pubblico, che accolsero le loro parabole auto-distruttive non come ricompensa karmica per i loro misfatti, ma piuttosto come la tragedia dell’antieroe destinato a soccombere davanti al sistema. Non dobbiamo dimenticare, infatti, la cornice storica entro cui il genere si inserisce, ovvero quella della Grande Depressione. Il pubblico di Scarface, arrabbiato con l’establishment corrotto e stanco della povertà e della disoccupazione, trovava nello sfregiato un punto di riferimento ben più forte che nei gentiluomini aristocratici e sofisticati delle commedie brillanti. Così, William Hays decise di limitare questo pericoloso affetto nei confronti dei fuorilegge, e dal 1934 in poi i film di gangster cambiarono il punto di vista sulle loro torbide vicende, ponendosi dalla parte degli intrepidi agenti della legge.
Gli antieroi criminali vedono un proprio rinascimento a partire dal cinema degli anni ’70 e si specializzano in attività più apertamente mafiose, grazie al film che probabilmente ancora oggi è il film di mafia per eccellenza: Il Padrino (The Godfather, 1972, F. F. Coppola). Di nuovo, il periodo storico permette un’identificazione del pubblico con il protagonista, che però questa volta non si trova in conflitto solo con i rappresentanti della società civile, ma anche con la vecchia lega della propria famiglia, della propria società. Infatti, Michael Corleone, interpretato dal giovane Al Pacino, all’inizio del film sembra voler restare estraneo alle attività malavitose dei Corleone ed è mostrato in aperto conflitto con il padre Don Vito (Marlon Brando). Michael è un eroe di guerra, riconosciuto e riconoscibile dalla gente perbene, ha una fidanzata puramente bionda e WASP, parla male il dialetto siciliano usato dai suoi parenti per discutere discretamente di affari. Ma la sua storia segue l’arco narrativo tipico dell’eroe riluttante, inizialmente costretto dagli eventi esterni a prendere parte all’“avventura”, che riuscirà infine a scalare i ranghi della propria società fino a emergere vincitore.
Lo spettatore, dunque, riconosce un pattern narrativo archetipico nelle vicende di Michael Corleone e non può che assumere il punto di vista del suo eroe e per estensione dell’intero sistema mafioso, che offre una visione dicotomica, in cui “noi” (la parte in cui lo spettatore si immedesima) siamo sempre i buoni, i modelli a cui aspirare, gli idoli da venerare. Così, di nuovo, Michael Corleone diventa il simbolo di una generazione, quella degli hippy e dei reduci del Vietnam, in lotta con i propri padri e con la propria società, destinata a compiere sempre gli stessi errori.
I film di mafia degli anni ’80 e ’90, tra cui non possiamo non citare il remake di Scarface (id., 1983, B. De Palma) e numerosi film di Martin Scorsese, da Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990) a Casinò (Casino, 1995), continuano sulla linea della piena immedesimazione e della caratterizzazione italo-americana, rinunciando però ai temi del conflitto generazionale e proponendo, al contrario, figure pienamente inserite nella parasocietà malavitosa. Se le storie di mafia continuano a proporre lo schema a parabola discendente dei loro protagonisti, questi sono sempre meno messi in discussione sul piano etico, poiché vengono visti effettivamente come uomini d’affari, persone che sono riuscite nella scalata sociale promessa dal capitalismo, assimilando le loro attività criminali a qualsiasi altra possibile sotto l’egida dell’American dream. Così, Robert De Niro e Joe Pesci spopolano sulle pagine motivazionali dei social, come esempi di imprenditori di successo, che “ce l’hanno fatta”.
Dal relatable antihero degli anni ’30 all’imprenditore senza scrupoli, il criminale non WASP si è mosso dai limiti della società fino al suo interno, riuscendo a piegarla ai propri scopi. La sua hybris continua a condannarlo a un destino tragico, ma quello che sempre più va perdendosi è la vera portata delle sue azioni e le conseguenze che i suoi illeciti hanno sulla società: l’omicidio di chi mette i bastoni fra le ruote ai protagonisti diventa un “win moment” per il pubblico, sempre acritico nei confronti della rappresentazione della violenza sullo schermo. Attenzione, questo non vuole essere un discorso alla “O tempora, o mores”: la cinematografia statunitense, come detto, vede nella figura del mafioso un agente del capitalismo come un altro, e l’estremismo sanguinario permesso dal genere funziona perfettamente per porre delle critiche paradigmatiche al sistema, ma l’America non ha mai vissuto una stagione come quella delle grandi stragi di mafia nostrane e forse non riesce a cogliere appieno le conseguenze sulla società della malavita. Dopotutto, lo stesso Tommaso Buscetta dichiarava che nessun membro di Cosa Nostra avrebbe mai potuto vivere come gli appariscenti Corleone, nonostante il suo film preferito fosse lo Scarface di De Palma.
Molto più pertinente è la questione razziale, come già discusso supra, e perciò le storie di mafia sembrano diventate prerogative dei registi italo-americani. I più accorti, come Scorsese con il suo Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (Mean Streets, 1973) sono in grado di raccontare non solo i vertici del sistema, ma anche le piccole realtà, i pizzaioli che “fanno favori” e i boss di quartiere, le “mezze calzette”, i “non arrivati” che non arriveranno mai. Rispetto all’Italia, dove i film sulla mafia sono quasi sempre riconducibili al genere drammatico-biografico e si concentrano su chi la mafia l’ha combattuta a prezzo della vita, favorendo una politica di memoria degli eroi nazionali, la mafia a Hollywood appare comunque tentacolare e ineluttabile, tuttavia, avvalendosi dei meccanismi narrativi propri delle fiabe e delle storie più classiche, è capace di essere ricondotta a una “cautionary tale” tutto sommato rassicurante, che permette allo spettatore un rapporto più sereno con le ambiguità dei suoi beniamini, i quali vengono a tutti gli effetti scollati dall’immagine mentale della vera e propria Cosa Nostra.