col filtro di Schnitzler, Kubrick e Dostoevskij
Negli anni in cui Klimt dipinge il suo Bacio, la società si trova meglio rispecchiata nell’arte spigolosa di Schiele, dove l’armonia convive col grottesco, dissimulando una torbida mancanza sottostante.
Mentre gli artisti ricercano la Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) nel mondo delle idee platoniche, quello terrestre vede dissolversi la propria organicità e si rifugia dietro al velo rassicurante dell’ipocrisia. In questo modo, confermava Oscar Wilde in un altro tempo ma nello stesso clima, “La vita imita l’arte”; tuttavia, in ugual misura, è l’arte a denunciare la vita. Sotto questa spinta, tra Ottocento e Novecento il Decadentismo inizia a trattare di personaggi vuoti e tormentati, alla ricerca di qualcosa che non è in loro possesso. Sono uomini borghesi, ben inseriti nella società e, allo stesso tempo, incredibilmente distanti da loro stessi. Chi sono? Cosa voglio davvero? sono le domande che cedono sotto a: Chi dovrei essere? Come dovrei apparire?
È in questo scenario che lo scrittore Arthur Schnitzler (Vienna, 1862-1931) scrive il suo romanzo breve ispirato alla psicanalisi freudiana: Traumnovelle (Doppio Sogno), pubblicato nel 1926 e ambientato nello stesso periodo nel capoluogo austriaco. L’artista, trasfigurando ciò che l’uomo comune non potrebbe confessare senza attirare scandalo, rimuove la patina di apparenza e rivela la verità. Schnitzler, nella sua opera, decide di svelare la realtà dei personaggi proprio attraverso la dimensione onirica.
Fin dal momento della sua pubblicazione nel 1899, L’interpretazione dei sogni di Freud apre il mondo dell’inconscio non soltanto alla scienza, ma anche all’arte. La letteratura inizia a interrogarsi sull’introspezione sotto una luce diversa e più consapevole. Nasce così il movimento surrealista, definito dal suo esponente André Breton, nel Manifeste du surréalisme: «automatismo psichico puro, che si propone di esprimere il reale funzionamento del pensiero […] in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione.»
I protagonisti del libro di Schnitzler sono Fridolin e Albertine: coniugi benestanti nella Vienna del primo ‘900. Niente sembra mancare loro, eppure, allo stesso tempo, nulla riesce ad appagarli.
A partire dall’influenza di Freud, che nelle sue teorie spiega la stratificazione psicologica tramite le tre istanze di Es (polo pulsionale, inconscio), Super-Io (coscienza morale con le sue proibizioni) e Io (compromesso tra i due estremi), la storia svela la complicata interiorità della coppia attraverso la tensione di entrambi al tradimento, che appare come l’unica via d’uscita all’insoddisfazione quotidiana. Procedendo in modo parallelo su direzioni opposte, Albertine si rivela colpevole soprattutto tramite i suoi sogni, mentre Fridolin ricerca l’adulterio nella vita reale senza mai realizzarlo, nell’arco di una notte pregna di inquietudine.
Schnitzler mescola la corruzione dei sensi alla dimensione onirica, percepita come unico antidoto alla vuotezza della vita. In questo modo l’autore riprende le pulsioni freudiane di Eros e Thànatos: vita e morte. Nella narrazione i due concetti vengono esaltati dando risalto alla sfera sessuale, che tocca il suo apice con l’orgia in maschera, a cui Fridolin assiste nella notte centrale del racconto, e con la morte di più personaggi.
La dimensione del sogno viene così assunta nella sua accezione più dionisiaca: è l’appagamento di un desiderio, l’inquietante rivelazione di un’infelicità che non è stata ancora colta dall’io. Il sogno è il tramite che svela una realtà che, ad occhi aperti, non sappiamo, o vogliamo, comprendere.
«Intuisco che la realtà di una notte, anzi, persino quella di un’intera vita umana, non rappresenta la sua più intima verità.»
«E nessun sogno è soltanto un sogno.»
– A. Schnitzler, Traumnovelle
È da questo libro che è stato tratto il film di Stanley Kubrick Eyes Wide Shut (1999), che già dal titolo, “occhi spalancati chiusi”, rivela l’ambigua opposizione tra la dimensione onirica e quella reale; quale vive l’altra?
Con la sua trasposizione cinematografica, Kubrick arricchisce la trama di Schnitzler con riferimenti al tema del doppio, sia tra eros e morte, sia tra sogno e realtà. I nomi dei protagonisti vengono modificati in Bill e Alice, per suggerirne l’essenza, e viene introdotto l’elemento simbolico dello specchio, legato ad Alice, sotto l’ispirazione dell’opera di Carroll: mentre il marito Bill la seduce, Alice si guarda attraverso il vetro, come disorientata dal riflesso della realtà.
Mentre Schnitzler elabora un mondo denso di inquietudine e corruzione, Dostoevskij nel secolo precedente realizza il suo spazio complementare: il beato surreale, un niente artificiale che costruisce una nuova realtà, preferibile a quella quotidiana.
Nel suo racconto giovanile Le Notti Bianche (1848) il sogno si stacca dal dionisiaco per sposarsi invece con la purezza dell’apollineo. Il protagonista non è in questo caso un uomo camuffato dalla sua maschera sociale, ma semplicemente un tipo, che parla di sé senza nemmeno svelare il proprio nome. Non ha un’identità, è soltanto un sognatore che vive la notte e sbiadisce col giorno.
L’opera russa che precede l’avvento di Freud non si pone come obiettivo quello di spiegare il sogno, bensì una fuga dalla quotidianità che, tuttavia, resta nel dominio del reale. L’elemento più astratto appare essere lo stesso protagonista, che vive di fantasticherie e di potrebbe essere. Realtà è, per lui, quello stato nel quale tutto può succedere, eppure non accade niente. Il sogno dell’uomo non avviene ad occhi chiusi, ma consiste nella conoscenza di Nasten’ka, evento che sconvolge la sua vita nonostante si concentri in appena quattro notti. Il sogno ad occhi aperti, designato in russo col termine unico di mectatel’stvo (da mecta, sogno), viene vissuto dal protagonista con estrema dolcezza, non rivelandogli tratti rinchiusi nel suo inconscio, bensì un miracolo: il sogno per lui è riuscire a comportarsi da vivo, parlare con la ragazza e scoprire l’intensità del suo amore per lei; è uscire dalla dimensione del potrebbe essere per realizzarlo, entrando così nella dimensione in cui la realtà viene smossa, anche se soltanto per “un intero attimo di beatitudine”. Non è più eros, ma àgape: amore disinteressato, puro e smisurato.
Così si designano più tipi di sogno, in base alla realtà che si sceglie di considerare e a ciò che definiamo sonno. Un sogno per ogni sentimento e ogni sua ombra, per evadere anche solo per una notte in ciò che si vuole, che non si può, che manca e tormenta. Finché arriva il mattino.
«Se solo sapeste quante volte mi sono innamorato in questo mondo!»
– F. Dostoevskij, Le notti bianche
«Ma come, di chi?»
«Di nessuno, di un ideale visto in sogno. In sogno creo romanzi interi.»
di Silvia Loprieno
Silvia Loprieno, al secondo anno della facoltà di Lettere Moderne all’Università Statale di Milano.
Comincio ogni presentazione su di me con la citazione di Oscar Wilde: «definire è limitare», che è soltanto un modo un po’ originale per giustificare la breve banalità del resto. Mi attrae tutto ciò che trovo particolare, tutto ciò che ritengo arte.
Scrivo da sempre per esprimermi ed esprimere concetti dalle aspirazioni filosofiche, concepiti dalla mia testa un po’ per caso.