Praise the Lorde

«And we’ll never be royals» apostrofava la misteriosa e giovanissima cantautrice Lorde, che riuscì a scalare le classifiche mondiali con il suo singolo di debutto: a soli 17 anni, l’artista neozelandese si ritrovò con due Grammy Awards, uno per Canzone dell’anno, e un disco di diamante negli Stati Uniti. Questi riconoscimenti non furono nient’altro che il trampolino di lancio per la brillante carriera di un’artista eclettica, schiva ma sempre in grado di lasciare la sua impronta nel panorama musicale mondiale.
Correva l’anno 2013 e il pop statunitense era dominato da pomposo massimalismo: sulla vetta della Billboard risiedevano canzoni dalla produzione ampollosa a supporto di testi impersonali e celebrativi di uno stile di vita opulento e fuori dal comune. Forse è proprio per questo che lo straordinario successo di Royals ha plasmato un’intera nuova generazione di artisti: il brano infatti ha una produzione estremamente minimalista e una lirica che critica aspramente la cultura del consumismo; non metteva più in mostra uno stile di vita ricco e distante, quanto piuttosto una noiosa, ma normale, vita di periferia dove le persone guidano le Cadillac solo nei loro sogni, dopotutto «that kind of lux just ain’t for us». Ciò che rende Royals così trascinante è l’uso del modo misolidio, tipico della musica medievale: il brano, infatti, non emerge né felice né triste, sia intimo che plateale, l’interprete stessa risulta insicura e audace al contempo.
L’ormai iconico brano è inserito sia nell’EP The Love Club, inizialmente rilasciato gratuitamente su Soundcloud, sia nell’album d’esordio Pure Heroine, entrambi del 2013. Le due opere sono estremamente simili nelle sonorità, al punto che per alcuni anni i brani dell’EP sono stati inseriti nella versione estesa dell’album. Con oltre 5 milioni di copie vendute nel mondo, Pure Heroine ha spianato la strada per un nuovo stile di fare musica e comunque riscuotere successo. La stessa Olivia Rodrigo ha recentemente dichiarato che sentire Royals alla radio l’ha profondamente scioccata in positivo al punto da dirsi “ma allora si può cantare quello che veramente sento?”
L’album è composto da 10 tracce legate insieme da una produzione favolosamente coesa a cura del connazionale Joel Little. Si apre con la orgogliosamente sarcastica Tennis Court, un inno al sentirsi diversi, come se fosse una nuova forma d’arte: il brano inizia con una domanda «don’t you think that it’s boring how people talk?», nel quale l’artista dipinge un quadro di un’adolescenza di periferia, in cui il regno da governare è la classe a scuola e la corte è il campo da tennis (il gioco di parole è purtroppo intraducibile). Il fascino da parte della giovane donna nei confronti della nobiltà dei Lord è particolarmente evidente dal suo nome d’arte, a cui aggiunge una -e finale per risultare più femminile. Questo è solo uno degli infiniti contrasti lirici presenti nei suoi testi: Lorde con Royals critica il consumismo sfrenato e intitola il suo album con un astuto doppio senso tra la purezza d’animo e quella della droga (si può forse dire che Lorde aggiunga le -e dove più servono?).
Nonostante la coscienza critica ben oltre ai suoi anni, l’artista non si sottrae alla ricerca dell’amore e delle connessioni umane, come evidenzia nella suggestiva 400 Lux: è alla ricerca di qualcuno con cui ammazzare il tempo, in un contesto suburbano nel quale si amano le strade dove le case non cambiano mai. La straordinaria e nostalgica Ribs è presto diventata un fan favourite, con i suoi cori spettrali e un senso d’ansia costante evocato dalle frequenti ripetizioni: è un’emozionante descrizione del timore di diventare grandi e l’immobilizzante consapevolezza che niente torna indietro al punto da gridare «I want ‘em back, the minds we had» seguito da «you’re the only friend I need».

Cullato da una produzione che evoca un ipnotico xilofono, il testo della sibillina Buzzcut Season racconta della beata ignoranza di essere giovani, piacevolmente all’oscuro dei crimini del mondo: tutto è bello finché vivi di fianco ad una piscina. Una forte fierezza dell’essere giovani è la chiave di volta della trascinante Team, dove nonostante viviamo in città che non si vedranno mai su uno schermo, facciamo parte l’uno della squadra dell’altro. Colpisce senza dubbio la frase «I’m kind of over getting told to throw my hands up in the air», come se fosse stufa di sentirsi esortata a ballare da ogni canzone che passa in radio. L’oscura Glory and Gore, un quadro delle lotte tra ragazzi paragonati a gladiatori, è probabilmente la ragione per cui Lorde sia stata scelta come produttrice esecutiva della colonna sonora di Hunger Games: Il canto della rivolta – parte 1, in cui compare la splendida Yellow Flicker Beat inserita nei titoli di coda del film e candidata ai Golden Globe come “Miglior Canzone”. Il legame col cinema persiste anche nella traccia successiva Still Sane, dove figura una citazione a The Shining di Kubrick: l’intima paura di impazzire nella solitudine della fama. Tuttavia, il senso di appartenenza tra i cool kids non è mai stato tra i suoi obiettivi, come ribadisce in White Teeth Teens (brano che suggella la sottile ossessione di Lorde di inserire la parola teeth in molti suoi testi). L’opera si conclude con l’ottimismo contagioso di A World Alone (nonostante il titolo suggerisca altre emozioni!): la potente gioia del saper ballare da soli risponde alla domanda con cui inizia l’album, anche se le persone parlano (e sono noiose), «let ‘em talk».
L’attesa per una seconda collezione di canzoni, smorzata solo dall’uscita della seducente collaborazione con i Disclosure Magnets, termina solo nel 2017 con l’album Melodrama: abbandonato il minimalismo ostinato del disco precedente, il suo secondo lavoro in studio è un viaggio straziante nelle emozioni conflittuali della perdita del proprio primo amore e la solitudine devastante che ne consegue, paragonata ad una tragedia greca (perché, siamo sinceri, lo è). Il singolo apripista è la trascinante Green Light, il ritratto di una persona col cuore in frantumi che attende disperatamente un segnale per andare avanti, oltre le bugie e la rabbia. La canzone racconta la presa di coscienza della protagonista cui il suo partner sta negando l’amore, ma comincia a sentire la nascita di una nuova versione di sé (musicalmente rappresentata dagli splendidi accordi al piano del produttore Jack Antonoff), anche se non è ancora capace di lasciar andare il passato. La seconda traccia, Sober, con le sue percussioni tribali, trombe e versi bisbigliati, rende subito chiara l’ambientazione della narrazione: una festa, in particolare la volatilità delle dichiarazioni fatte da ubriachi, «but what will we do where we’re sober?». Il divertimento sfrenato permea Homemade Dynamite, nel cui bridge viene adorabilmente imitato il suono di un’esplosione dalla stessa autrice. Nonostante l’euforia, i ricordi riaffiorano come un fiume in piena nell’ipnotica The Louvre, in cui Lorde paragona l’innamorarsi ad un’opera d’arte degna di un museo. Le chitarre utilizzante trasudano dell’influenza di Phil Collins, fino a diventare il battito di un cuore nel sublime ritornello. La coda strumentale della traccia conduce alla straziante ballata al piano Liability, in cui è contenuto il dolore e il senso di abbandono di chi un minuto si sente dire “ti amo” e quello dopo “sei troppo per me”. Con questo peso nel cuore si arriva alla realizzazione di non amare più nel medley Hard Feelings/Loveless, in cui compaiono dei synths simili allo stridio del metallo ad accompagnare la catarsi dell’accettare la fine di un “per sempre”, al punto da sfociare in un maniacale cinismo sul finale; tuttavia, finché la transizione tra questi due stati d’animo avviene con un sample di In the Air Tonight, c’è poco di cui lamentarsi.
Il secondo atto di questo melodrammatico percorso riprende, anche nei titoli, i concetti del primo ma offrendone una prospettiva più consapevole e distaccata. Sober II (Melodrama) mette in scena la solitudine di dover riordinare casa dopo che tutti sono andati via, pulire i bicchieri sporchi fa scappare i pensieri su come gli amanti sono capaci di baciarsi e uccidersi a vicenda. L’arrangiamento orchestrale e un inaspettato beat trap svaniscono a lasciare spazio alla struggente ballata orchestrale Writer In The Dark, durante il cui ritornello Lorde sembra sul punto di scoppiare in pianti, finché questo lamento non si fonde ai tristi violini finali. Svegliatasi nel letto di uno sconosciuto, l’artista riflette sul provare ancora affetto ma aver maturato la forza di vivere senza chi non avrebbe mai pensato di perdere. È per questo che in Supercut, nonostante presenti l’interpolazione del piano di Green Light, la protagonista rispolvera tutti i ricordi ma col il dovuto distacco emotivo e matura consapevolezza. La traccia possiede, infatti, lo straordinario potere di essere felice e triste al contempo. Il terzo atto di Melodrama inizia con Liability (Reprise), durante la quale la narratrice trova finalmente la forza di riscoprire il proprio valore e dire finalmente “vattene”. Il ruolo di luce in fondo al tunnel è affidato alla potente Perfect Places, una sorta di addio all’adolescenza, al riconoscere la fallibilità degli adulti e dei propri idoli, la natura mutevole dell’amore; rendendosi conto che forse non ha senso cercarlo in un solo luogo perfetto.

Dopo lo straordinario successo di critica e una candidatura ai Grammy per “Album dell’anno”, Lorde scompare per ben quattro anni, per ritornare nel 2021 con la sua terza fatica in studio: il divisivo Solar Power. L’album è infatti stato accolto in maniera molto contrastante sia dai fan che dalla critica, un responso che Lorde stessa ha definito “doloroso”. Se i primi due ripercorrono tappe fondamentali della vita di una persona, questo terzo disco, rilasciato in piena pandemia, risulta inequivocabilmente inaccessibile ai più: non tutti hanno avuto la possibilità di trascorrere l’isolamento forzato a prendere il sole in una spiaggia neozelandese a meditare sulla vita. Questa scrittura poco empatica e la produzione asciutta, rendono Solar Power un album (ahimé) noioso: non traspare mai un vero filo conduttore in queste tracce, alcune di esse addirittura fanno fatica a distinguersi da delle demo. Nella traccia di apertura The Path, Lorde dichiara a pieno titolo di non voler ricoprire il ruolo di salvatore e, nonostante la bellezza del brano, il messaggio risulta inesorabilmente artificioso, considerata la brillantezza nella scrittura dimostrata nei precedenti lavori. La spensieratezza di una giornata al mare è il tema dietro la title track, un brano gradevole ma che, forse, non giustifica quattro anni di silenzio musicale. La disillusione verso la fama traspare in molte tracce, tra cui California e Helen of Troy, per poi approdare ad una meditazione sullo scorrere del tempo, scontri generazionali e con se stessi, nei brani Stoned at The Nail Salon, Secrets From A Girl (Who’s Seen It All), Oceanic Feeling e Hold No Grudge. Un filone narrativo con enorme potenziale e pochi risultati è quello della crisi climatica, affidato alla splendida Fallen Fruit (probabilmente il brano più solido del disco) e la trascurabile Leader Of A New Regime: purtroppo, nonostante le nobili intenzioni, il tema risulta a malapena abbozzato e incompleto. Un altro aspetto affrontato (tristemente superficialmente) è la critica alla “wellness culture” occidentale nelle tracce Dominoes e Mood Ring: la satira nel criticare chi è ricco materialmente e spiritualmente povero è un ottimo spunto che però emerge sfacciatamente fasullo, considerato lo stile di vita della cantante. Le canzoni dedicate al compagno e al cane scomparso, rispettivamente The Man With The Axe e Big Star hanno un arrangiamento così arido e sparso da tradire le forti emozioni che vorrebbero evocare, risultando fredde e distanti, quasi inconcluse.
Nonostante il passo falso di questo suo ultimo lavoro, Lorde ha dichiarato nella newsletter indirizzata ai suoi fan di aver ritrovato e riscoperto la passione nel fare il suo lavoro, la gioia di creare una connessione con il suo pubblico. Sta lasciando intendere di essere all’opera sul suo prossimo progetto e di avere una “luce accesa” dentro di sé che non vede l’ora di mostrarci. Non ci sono davvero motivi per non aspettare con indomita curiosità la sua nuova era musicale, da parte di una delle cantautrici più promettenti della nostra generazione, soprattutto quando dichiara, citando Supercut, «in my head I do everything right». E noi ci crediamo.