Un gran boxeur

«Si vous n’aimez pas la mer… si vous n’aimez pas la montagne… si vous n’aimez pas la ville… allez vous faire foutre !»
Così, nel 1960, apostrofava gli spettatori disorientati, con una serie di rivoluzionari sguardi in macchina, Jean-Paul Belmondo, in una delle scene iniziali di Fino all’ultimo respiro, esordio alla regia a bassissimo budget di Jean-Luc Godard, per cui persino l’attore protagonista aveva profetizzato un clamoroso insuccesso e che invece diventerà il manifesto di una nuova generazione di cineasti: la Nouvelle Vague.
Poco male per Belmondo, che, pur avendo già lavorato con grandi registi (Carné, Peccatori in blue-jeans, 1958) e con registi che grandi lo sarebbero diventati presto (Chabrol, A doppia mandata, 1959), si ritrovò, dall’oggi all’indomani, catapultato allo status di attore simbolo di una generazione, di un movimento, della nuova frontiera intellettuale che avrebbe scardinato i principi del cinema mondiale per tutti gli anni ’60 e buona parte dei ’70. Neanche lui si aspettava questo successo subitaneo: non aveva mai avuto la concentrazione e la disciplina necessaria ad “applicarsi” ai metodi di studio, né sui banchi di scuola (diceva di non aver completato neanche il primo ciclo di studi), né nelle aule del Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique, che al primo colpo gli rifiutò il diploma.
Eppure, Bébel aveva da sempre il pallino della recitazione. Quando il padre Paul, noto scultore d’origini siculo-piemontese, si arrabbiava per i voti bassi o per le bravate e gli chiedeva cosa intendesse fare della sua vita, lui rispondeva: l’attore o il boxeur.
Inizialmente, aveva imboccato la prima strada, ma non era riuscito a ricavarne altro che il suo caratteristico naso schiacciato, che sarebbe diventato un simbolo. Poi, dopo qualche esperienza teatrale e cinematografica – oltre ai già citati Carné e Chabrol, lo vediamo anche in Fatti bella e taci (Allegret, 1958) e La ciociara (De Sica, 1960) – arriva l’incontro con uno strano ometto dagli occhiali neri, che gli offre 40mila franchi dell’epoca e l’occasione della vita. Al primo seguono altri successi, tra collaborazioni con Godard (La donna è donna, 1961; Il bandito delle 11, 1965), le commedie d’autore di Truffaut (La mia droga si chiama Julie, 1969) e i drammi eleganti di Jean-Pierre Melville, tra cui spicca Léon Morin, prete (1961).
Amato dalle platee internazionali, pur avendo lavorato quasi esclusivamente in Francia, dal 1964 (L’uomo di Rio, Philippe de Broca) Bébel affianca al cinema d’autore i film d’intrattenimento, riuscendo nell’ardua impresa di conciliare pubblico e critica, élite cinefila e comuni spettatori, senza mai dimenticare l’amore di gioventù – il teatro – inizialmente accantonato in favore del fratello su pellicola.
Era una vera icona Belmondo; quella sua espressione da sarcastico lupo di mare ha accompagnato generazioni e generazioni di occhi attenti, entusiasti, emozionati, e ha ispirato altre icone, come l’Indiana Jones di Spielberg. Anche dopo l’ictus del 2001, aveva continuato ad incantarci con le sue interpretazioni e i suoi stunt, che ha sempre voluto fare da sé. Il 6 settembre 2021, il cinema ha subito un colpp durissimo. Resta quasi solo Alain Delon, l’amico di una vita, a ricordare – e ricordarci – quel periodo elettrizzante e dorato del cinema.
Ma il sipario si è chiuso per sempre sull’unico degno di essere chiamato “il Magnifico”.
p. 6 →
← p.5