Sano intrattenimento
Di recente ho letto “Sano intrattenimento” del filosofo coreano-tedesco Byung-chul Han. Nel capitolo conclusivo del libro troviamo alcune riflessioni:
«Oggigiorno, l’intrattenimento sembra legarsi a ciascun sistema sociale e modificarlo affinché ciascun sistema produca le proprie forme di intrattenimento. […] il confine tra “realtà vera” e “realtà finzionale”, che contraddistingue l’intrattenimento, sfuma sempre più. Da tempo ormai l’intrattenimento comprende anche la “realtà vera”. Modifica gli interi sistemi sociali senza tuttavia sottolineare la propria presenza. Sta al codice binario divertente/non divertente, alla sua base, decidere cos’è adatto al mondo e cosa no, anzi, cosa è. L’intrattenimento si eleva a nuovo paradigma, a nuova formula del mondo e dell’essere. Per essere, per appartenere al mondo, è necessario intrattenere. Solo ciò che intrattiene è reale o vero. La distinzione tra realtà vera e finzionale […] non è più rilevante, giacché la realtà stessa sembra effetto dell’intrattenimento.»
E se l’intrattenimento che scegliamo fosse il ritratto di quello che siamo? I contenuti che consumiamo ci riflettono o, piuttosto, ci cambiano? Che uno screen della nostra For You Page di TikTok, della nostra timeline di Twitter, del nostro feed di Instagram, siano davvero il selfie più fedele che possiamo scattare?
I miei colleghi di redazione si sono dedicati a ritrarre personalità che meritano di essere incorniciate, secondo gli standard più canonici: leggende della letteratura, della tv, dell’arte. Io invece ho deciso di deviare da questo paradigma e di scandagliare l’humus del 2021, quello strato superficiale dove, però, l’umile terra inizia a diventare fertile grazie alla decomposizione.
In questo articolo, che ricorderà, a chi lo conosce, il formato satirico degli Shouts and murmurs del New Yorker (chi non lo conosce abbandoni la pietra sotto la quale ha vissuto finora e vada ¡subito! a leggerne qualcuno) ci muoveremo nel mediaverso con occhio sorrentiniano, un regista che, come dimostra anche nel suo ultimo film, ha ben capito che la distinzione tra rappresentazione e parodia non esiste, e che il grottesco e la verità sono intrinsecamente inseparabili (raccogliendo l’eredità di Pirandello). Non ci saranno regole ma piuttosto si procederà per analogia e associazione libera.
Mettiamo in scena questa pupazzata allora!
I 5 pupi
1. Renatino – Il mulo felice
Il mito di Stachanov, come tutti i miti, non muore mai; piuttosto sul carro narrativo, rodato dall’uso, salgono nuovi eroi (o vittime, a seconda della prospettiva sociale da cui si guarda). Eccoci, dunque, passare dalle miniere di carbone degli anni ‘30 ai caseifici del Parmigiano Reggiano. I pubblicitari dello spot (qui potete trovare il corto con un commento a mio parere valido) si sono detti: yassifichiamo lo schiavismo! Che problema c’è a far dire a Renatino che lavorare 365 giorni l’anno lo rende felice? Per di più davanti a ventenni borghesi che fanno domande terribilmente classiste. E l’idea di ricreare la gita delle elementari alla fattoria didattica con dei figli di papà come protagonisti? Geniale.
Ho una certa familiarità con quelli che oggi si chiamano “hard workers” e un tempo si chiamavano muli. Prima studente del liceo più borghese e di grido della mia città, poi della facoltà di medicina, ne ho visti moltissimi. E, se è vero che non bisogna scadere nel fare il tacchino induttivista, direbbe quel bonaccione di filosofo che era Popper, è altrettanto vero che la maggior parte delle persone non ha talento alcuno o quantomeno non si adopera per riconoscere e sviluppare ciò che potrebbe permettere di dare qualcosa indietro agli altri, alla società. La salvezza degli italiani e dell’Italia tuttavia esiste, un vero e proprio mantra interiorizzato: le cose vanno portate a termine con il minimo sforzo. Del resto la stessa lingua italiana, con espressioni come ammazzare il tempo o ammazzacaffè, è consapevole che l’unica cosa che conta davvero è l’illusione di star facendo qualcosa di bello e piacevole, ma soprattutto di stare oziando. Si tratta di un’ode all’intelligenza, a trovare la via più veloce e semplice.
Renatino è un attentato all’italianità e come lui, tanti altri fanatici del lavoro duro e dell’abnegazione per la mission dell’azienda, sono degli aspiranti assassini. A costo di sembrare meloniano io dico: proteggiamo la pigrizia italiana, ostracizziamo tutti coloro che il sistema di merito tardo-capitalista riconosce come geni, coloro che bruciano le tappe, che si laureano in tempo, che conseguono più lauree contemporaneamente, che sono contenti di fare tre lavori per potersi permettere 37,5 metri quadri di “bilocale” in Porta Venezia. È assolutamente giusto odiare le persone a cui piace fare fatica per il denaro e gli status symbol, come la vacanza a Parigi o a Forte dei Marmi. Che poi, che c*zzo ci andate a fare a Parigi se l’ultimo libro di arte che avete aperto è stato quello che avete passato alla vostra madre borghese, per farvi fare una copia dei Girasoli di Van Gogh. Per quanto riguarda Forte, nemmeno commento. L’idroscalo di Milano ha più appeal, almeno è iconico nel suo fare schifo a tutti.
Less is more, soprattutto quando si tratta di lavorare sotto padrone. Per cui fate come Luigi Ghirri, che, invece di lavorare per lo studio di architetti di cui era dipendente, si chiudeva in bagno a leggere. O Paris Hilton, che, stufa di andare a lavoro, contatta un’agenzia di modelle per trovare una sosia che vada al posto suo.
2. Imen Jane – La laureata all’Università della vita
Ma chi è Imen Jane? È un emblema. Un simbolo totirappresentativo dell’influencer i cui valori non esistono, ma vengono creati su misura per la performance sui social. Che sia l’essere woke per quanto riguarda tematiche ambientali o sociali, o che sia l’avere una qualche conoscenza delle più disparate attività con cui si consuma il tempo libero (dalla lettura al trucco, dal cinema alla moda), l’influencer è come appare. O, per meglio dire, la sua stessa esistenza è frutto di una rappresentazione. Non c’è più un nucleo stabile, un’essenza dell’essere umano. Il cogito ergo sum cartesiano è diventato performo ergo sum?
Abbiamo davvero bisogno di ispirarci a qualcuno per sapere come vivere? Ma soprattutto, con quali criteri stiamo scegliendo i nostri modelli? Come scrive Byung Chul-Han nel libro citato a inizio articolo, c’è la necessità che ogni contenuto, oltre che essere informativo, intrattenga. Ma cosa succede quando smettiamo di pretendere che il contenuto abbia anche un valore edificante? Che ci ritroviamo ad esempio su Tiktok a fare voyeurismo di ragazze ricche che hanno il parquet targato Versace o, peggio, sul profilo di Federica Scagnetti (lascio ai più coraggiosi l’impresa di cercare chi sia). Il non plus ultra si raggiunge su YouTube, facendo binge-watching dei video di Chiara Facchetti. Se ci fosse un quinto cavaliere dell’Apocalisse, probabilmente sarebbe lei e porterebbe i vessilli del tardo consumismo, qualcosa come una bandiera che incorpori i loghi di Amazon, Zara e Shein (e sul retro AliExpress). Si tratta solo di downward social comparison? Ovvero, guardiamo queste persone solo perché riteniamo che esse siano più stupide di noi e la cosa ci fa sentire meglio? C’è forse anche altro? Che il consumismo sia evoluto verso una forma fine a se stessa e, in questa nuova fase – se di decadenza, lo potremo dire tra qualche anno – l’atto stesso di comprare ha assunto una valenza erotica in sé, avulsa dall’oggetto E di conseguenza anche l’atto di guardare qualcuno acquistare e spacchettare (pensate ai video di unboxing) possa risultare eccitante?
Il consiglio per il 2022 è smettere di seguire chi ci dice come fare le cose e provare da noi. Go touch some grass. Letteralmente. Fate come la protagonista di Io sono l’amore di Guadagnino. Trovate qualcuno con cui andare in camporella o, alla peggio, con cui fare un picnic. Le pressioni delle nostre madri sono già sufficienti a creare mommy issues, sindromi dell’impostore e a debilitare la nostra fragile autostima. Sarebbe meglio non rincarare la dose. E poi, non vorremmo mai rendere le nostre mamme gelose di un influencer.
3. Gemma – La ritoccata
Mia madre dice sempre che vuole rifarsi il seno, forse è la volta buona che per i suoi 50 anni il compagno glielo regala (del resto coi problemi cardiovascolari che si ritrova, meglio faccia in fretta se vuole goderne per qualche anno). Forse questo inizio di paragrafo è problematico, ma sapete cosa? A me non interessa. Cioè mi interessa, ma fino ad un certo punto. Sì, tutti oggettifichiamo i corpi dei nostri partner. Sì, tutti facciamo pressioni affinché i nostri partner cambino esteticamente, e non solo, perché ci attraggano di più. Aboliamo una certa ipocrisia che si annida nel concetto stesso di rispetto, come lo si intende al giorno d’oggi: il rispetto è relativo, come lo sono le pretese di ogni persona a riguardo. Farmi sputare in bocca non è una mancanza di rispetto, se voglio. Non esistono pratiche di rispetto in senso assoluto. Anche le leggi sono semplicemente convenzioni supportate da buon senso.
Ma andiamo al punto focale, ovvero la nostra pupa, nonché personaggio chiave del palinsesto pomeridiano di Canale 5: Gemma Galgani. La bigliettaia di Torino ha deciso che era il momento di assimilare della plastica e ridonare turgore al suo petto. Era ora! Se solo tutte le microplastiche che ingeriamo ogni giorno potessero andare nei posti giusti, ad esempio alle labbra, o a riempire le odiose rughe attorno agli occhi. A proposito: di recente ho notato l’effetto re-pulp dell’acqua di Milano sulle mie labbra. Che sia forse dovuto a qualche discarica abusiva vicina a dove abito? O forse sono le spore di botulino del cibo del coinquilino del ragazzo con cui mi vedo, che abitano oramai il frigo da generazioni. In ogni caso, viva il filler! Non possiamo certo riempire l’abisso del nostro vuoto interiore, ma per la carne vale tutto.
4. Denis Dosio – L’artista Performativo
Quello che è iniziato come fenomeno cringe sui social si sta evolvendo, a mio avviso, in una sorta di ibrido tra un esperimento sociale e l’arte performativa sui social. Se Amalia Ulman, artista che attualmente collabora con il MoMA, ha iniziato fingendo di essere un tipo di ragazza diversa per ogni sua era Instagram, di fatto inventando il fenomeno dell’influencing (le basi per Chiara Ferragni e per ogni altra Fit Tea girl sono da cercarsi nel lontano 2014), perché anche Denis non si merita di collaborare con il museo di New York? Le sue patatine nel c*lo sono tanto diverse dalla Merda d’artista di Piero Manzoni? (scusate, ma, vista la prossimità anatomica, forse dopo ciò che è uscito è il momento per l’arte di testimoniare ciò che entra dentro?).
Sta diventando, questo, un articolo di domande. E se si dice che quando uno non sa più cosa scrivere, allora fa brodo con domande, spesso retoriche, rimane, tuttavia, vero che queste sono lontane da una risposta. È arte quella che viene riconosciuta come tale? Quella esposta in un museo? Se chiudessi le patatine di Denis in una teca e le esponessi in una galleria, acquisterebbero dignità artistica? O forse, esiste qualcosa come la dignità concettuale, e la nostra salvezza è nel concept?
A mio parere, l’artisticità non esiste di per sé, ma è frutto della narrativizzazione dei fruitori, dal loro tentativo di validazione della propria esperienza artistica. I social network hanno introdotto delle nuove dinamiche, perché è la storia stessa, il suo essere eclatante, fare scalpore, like, che la rende arte. E, forse, in questa prospettiva, per usare una metafora cara a Baudelaire, hanno rimesso l’aureola in testa al poeta, al creatore di contenuti. Perché il focus è tornato alla creazione, che però è necessariamente performance:non c’è un prodotto artistico duraturo su un medium reale, come un quadro o una scultura. Tutto viaggia in quell’etere che è internet e rimane, per qualche tempo, su un server, per poi scomparire, facilmente e velocemente dimenticato dal suo pubblico.
5. Rajae Bezzaz – La berbera
Capita che in casa del ragazzo che sto frequentando si accenda la tv. Capita che sia su Striscia la notizia. Assistiamo, increduli, a 10 minuti di servizio in cui una donna, che si dice proveniente dal Maghreb, passeggia con la sagoma di un talebano in mano e invita presunti musulmani a tirare contro di essa una ciabatta. Dice che è un gesto simbolico contro il fondamentalismo islamico. Ma intanto la sua ricerca di partecipanti procede dove i musulmani sono ghettizzati, perché sono più poveri e non possono permettersi di vivere altrove, perché le politiche di integrazione non funzionano, perché tutti cercano rifugio tra le persone che hanno una cultura comune a loro, a partire dalla lingua. E l’inviata non si rende conto del suo stesso razzismo, nel circolare tra quei ghetti, nel disturbare i bangla, che vorrebbero continuare il loro lavoro già difficile di rivenditori h24 per studenti borghesi che devono comprare il vinello, o il gelato da portare ad una serata a casa di qualcuno, e per persone ubriache, moleste o costrette dai loro lavori-non-lavori illegali alla notte.
Conclude con un urletto berbero Rajae, e la sensazione che permane è di aver assistito al razzismo inconsapevole di una donna che pensa di portare progresso e civiltà, ma sguazza nell’ignoranza.
Chiosa la scena una mia bestemmia, che riecheggia nell’aria satura di fumo, e a cui segue una semplice domanda che, tuttavia, sento tormenta molti di noi: “ma quando smetteranno di registrare Striscia la notizia?”
E molte altre ancora riguardanti la tv italiana: perché Amadeus ha un profilo Instagram di coppia gestito dalla moglie dispotica? Ma, soprattutto, com’è che condurrà anche Sanremo 2022? Perché Pio e Amedeo non sono ancora stati reverse-hatecrimati da qualche omosessuale? È necessario che qualcuno torni al laterizio e lanci un nuovo primo mattone contro l’uomo bianco medio eterosessuale. Dice Jane Fonda: Walk with the confidence of a mediocre white man. È forse giunta l’ora, si sente forse la necessità di nuovi anni di piombo dove a impugnare le armi sono i membri della comunità LGBTQ+? È auspicabile qualche gambizzazione con proiettili di gomma arcobaleno? Sicuramente è un mio sogno erotico.
Pupo bonus: Alfonso Signorini – l’antiabortista
Prima di Natale ho dato fuoco ad un bigliettino che recitava: “Alfonso Signorini hatecrimato 2022”. Ho davvero sperato che il conduttore del GF Vip venisse picchiato? Sì. Ho paura del Karma? No. Ma spero di essere una strega.
Chiudiamo col botto: com’è che a Capodanno si torna all’applicazione del codice di Hammurabi e orde di deficienti perdono dita o arti per fare un po’ di luce e qualche scintilla? Possiamo davvero credere nel progresso quando ogni Primo dell’anno nuovo parti anatomiche di italiani finiscono al Purgatorio dei botti? E chi prega perché si riduca la loro pena? Certamente i vivi pregano perché i padroni le raggiungano, nell’aldilà, il prima possibile.
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2021
Editoriale · L’Eclisse
Anno 1 · N°8 · Dicembre 2021
Copertina di Laura Maroccia.
Hanno partecipato alla realizzazione di questo editoriale: Greta Beluffi, Elisabetta Capovani, Anna Cosentini, Joanna Dema, Alice Fenaroli, Eugenia Gandini, Marta Gatti, Chiara Gianfreda, Nikolin Lasku, Matteo Mallia, Valentina Oger, Alessandro Orlandi, Mattia Romaniello, Luca Ruffini, Alice Santamaria, Tommaso Strada, Vittoria Tosatto, Marta Tucci, Marta Urriani, Adriano Zonta.