Immagini del sé. Realtà e finzione nella creazione dell’Io
“Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni”.
Così si chiude Fanny e Alexander (1982), uno dei capolavori di Ingmar Bergman: con la constatazione che il limite tra realtà e immaginazione è molto più sottile di quanto sembri. Il “vero mondo” si raggiunge più con l’immaginazione, con la finzione e la messa in scena che credendo alla superficie della realtà condivisa. L’idea di fondo è che il reale che tendiamo a considerare tale sia intrinsecamente surreale e ambiguo, una realtà reale-in-quanto-immaginaria. In questo senso, la finzione e l’immaginazione farebbero parte di essa.
Chiaramente, Bergman si riferisce qui al sogno e al mondo onirico, che si intreccia e si mescola con la verità dei fatti. Non a caso, alla fine del film il padre vessatorio e autoritario – eterno incubo dei due protagonisti (Fanny e Alexander, fratello e sorella) – riappare per qualche istante, anche se morto. Non è chiaro se si tratti di un’allucinazione di Alexander, di un sogno o di un capovolgimento improvviso nella trama. Ma questo non è rilevante. Il punto saliente risiede invece nell’assoluta confusione tra il vero e il falso, la realtà e la finzione, il sogno e la veglia. Un morto è veramente morto, se rappresenta un trauma? Il passato è veramente passato, se continua ad agire sul presente? Sogno e veglia sono davvero distinte, o fanno parte di un’unica matassa aggrovigliata, il flusso caotico del vissuto?
Bergman lascia queste domande aperte, dischiudendo una finestra interpretativa sul suo film. Il senso di quest’ultima è, allora, il dubbio su cosa sia vero e cosa no, su a che punto il vissuto – unica realtà possibile per ciascuno – possa definirsi reale. Se il mondo è sempre metabolizzato da un’unica prospettiva, se in definitiva tutto ciò che sembra oggettivo poiché condiviso non è che l’esperienza di un singolo, e nessun singolo può essere altri che lui, come si valuta l’oggettività, la realtà?
In questo senso, Bergman sembra dire che l’umano è per definizione necessariamente soggettivo – e dunque onirico, confuso, permeato da sensazioni, distorsioni continue e, in ultima istanza, solipsista. Questo porta alla “base insignificante di realtà”: l’immaginazione è quella che crea il vissuto, e di conseguenza la realtà; ogni evento, dal più personale al più oggettivo, è deformato dalla soggettività. Le distorsioni dell’immaginazione compongono il mondo, e dunque proprio quello che noi chiamiamo reale. La soluzione non è, dunque, negare quest’ultimo, ma rivalutarlo, considerarlo un insieme di sensazioni ed eventi, veri o falsi non importa. È ridimensionare il concetto di verità, senza conferirgli un valore assoluto. La realtà è questa per noi – per me. Allora, con gesto postmoderno, tutto accade, tutto è verosimile.
Il tema del labile confine tra realtà e finzione si ritrova in un altro dei suoi film, Persona, uscito nel 1966 e quindi precedente a Fanny e Alexander. Il tema della finzione è qui affrontato da una prospettiva più squisitamente psicologica. Si parla infatti del binomio falsità-realtà in relazione all’interiorità della protagonista o, se vogliamo, alla rappresentazione del suo Io.
Elisabet è un’attrice che smette improvvisamente di parlare durante una performance recitativa. Non è chiaro cosa accada e quale sia il motivo dell’afasia. L’aspetto cruciale risiede però nel significato che si può dare a quest’ultima. La protagonista sembra ritrovarsi nel bel mezzo di una crisi identitaria, che erompe forse nel momento in cui un dettaglio o un fatto insignificante si presentano durante la recitazione, come succede quando ci si ricorda o si realizza improvvisamente qualcosa di latente grazie a un particolare (un sogno che viene ricordato grazie all’apparizione di un oggetto, un ricordo d’infanzia evocato da un luogo già conosciuto, una consapevolezza sorta repentinamente dall’ascolto di una storia simile alla nostra).
Sebbene Bergman non fornisca risposte chiare nemmeno in questo lungometraggio, il conflitto interiore che determina l’afasia di Elisabet si configura in ultima analisi come un rifiuto del ruolo. Una possibile interpretazione del film ci suggerisce, infatti, che la protagonista scelga di smettere di parlare proprio in scena perché si sente improvvisamente stanca di recitare. Ora, l’aspetto più rilevante di questo silenzio è il suo prolungarsi nella vita quotidiana: anche quest’ultima, in fondo, è per la protagonista una finzione. Non che Elisabet nasconda segreti o abbia vite parallele: è la vita tout court che nel film di Bergman si profila come una finzione, nella misura in cui rende necessaria l’assunzione di un ruolo, l’interpretazione di un personaggio, che ci si stanca di incarnare. In questo senso, il mutismo dell’attrice appare come un rifiuto della finzione, resa necessaria dalla vita stessa: se non si può vivere senza interpretare un ruolo, allora la vita si rivela essa stessa una necessaria simulazione – con gli altri, ma soprattutto con sé stessi. L’afasia dunque permette di uscire da questo vicolo cieco: non esprimendosi, non si è nessuno, e si evita di recitare.
Tuttavia, subito si rivela la fallacia di questa posizione. In realtà, non c’è scampo dal personaggio, dal ruolo: anche il mutismo stesso diviene, a lungo andare, non-neutro, significante. Volendo non-significare-nulla – volendo essere vuoto -, esso si carica di contenuto e rende ancor più evidente l’interpretazione di una parte, quella di chi desidera non-parlare. Il paradosso è dunque il seguente: la volontà di appiattire e annullare, neutralizzare ogni forma di personalità, di caratterizzazione (ciò che, appunto, crea il personaggio che ognuno di noi è) rende manifesta proprio la volontà di non-essere, dicendo quindi moltissimo della persona: quest’ultima desidera non-dire, caratterizzandosi proprio in questo modo. Il significato del mutismo di Elisabet è “non-voglio-significare”, e questo rende l’afasia stessa significante, parlante pur nel silenzio. Sembra quindi impossibile uscire dalla caratterizzazione, e dunque dalla finzione.
Alla luce di quanto detto, la riflessione di Bergman si rivela indubbiamente profonda: il tema centrale di Persona sembra essere ciò che potremmo chiamare “finzione personale”, o “finzione interiore” – la finzione dell’Io con sé stesso. Materia, questa, di cui si occupa peraltro la psicologia della Gestalt (si pensi a Lacan) così come, in alcuni casi, la letteratura, e basterebbe citare Madame Bovary o Don Quijote.
Nel primo caso, le stade du miroir teorizzato dallo psicanalista francese (con l’assunto che il Sé inizi a formarsi proprio a partire dall’immagine unificata che lo specchio restituisce del soggetto) sembra suggerire che l’Io si crei attraverso un’idealizzazione, in definitiva un personaggio che si crede di essere, e che si può compiutamente ammirare allo specchio. E quale strana patologia affligge Emma Bovary, se non quella dell’eccessivo desiderio identificativo nelle eroine dei suoi romanzi? La protagonista del capolavoro di Flaubert imita modelli di donne nella speranza di trasformarsi in esse, e la speranza è certo nutrita dalla finzione. L’imitazione non potrebbe mai soddisfare, anche per breve tempo, la protagonista, se non vi fosse in lei la convinzione che la metamorfosi possa avvenire.
In altri termini, ciò che riempie – anziché svuotare, come era per Elisabet – la personalità di Emma Bovary sono altre storie, altre personalità, altri personaggi, che momentaneamente lei incarna, compiacendosene e nutrendosene. Il caso della signora Bovary è, certo, patologico, e non a caso Emma finirà per perire del suo stesso ‘desiderio mimetico’, per dirla con Girard. Ma è forse proprio in virtù di questo desiderio di imitazione, in fondo umano, che il romanzo di Flaubert è un grande classico. Madame Bovary è infatti capace di toccare chi legge con qualcosa che lo o la riguarda intimamente: la necessità dell’auto-finzione in vista della ricerca di un’identità. La volontà di identificarsi con un’immagine chiara e unitaria, visibile nello specchio (un certo colore di capelli, accurate scelte nel vestiario…), in definitiva la voglia di definirsi, altro non sarebbero che la necessaria interpretazione di un ruolo, di un personaggio a cui cerchiamo di corrispondere, un ideale. Con le sue ambizioni e rigidità, il Sé prova a scegliere chi essere, desidera definirsi una volta per tutte. La sua realtà è l’interpretazione, la finzione, puro terrore per chi se ne accorge senza accettarlo, come Elisabet.
L’incubo del personaggio, del ruolo, da cui è impossibile uscire, diventa così una malattia, prendendo due direzioni opposte: in Persona quella dell’esagerata consapevolezza, e quindi della negazione e del rifiuto; in Madame Bovary, invece, quella della totale inconsapevolezza e irragionevolezza. In entrambi i casi, la finzione prende il sopravvento: da un lato col mutismo, che volendo sottrarsi alla recitazione e alla significazione diventa paradossalmente atto espressivo; dall’altro con la finzione eccessiva, sregolata e inconsapevole. In entrambi i casi, tuttavia, sembra che si parli di qualcosa che riguarda complessivamente l’essere umano: il bisogno di passare per la finzione, per l’ideale, forse per l’auto-inganno, nel tentativo di vedere nel proprio riflesso un’immagine unitaria.
La domanda che allora sembra apparire centrale è la seguente. È possibile, per l’Io, crearsi senza interpretare, essere senza fingere almeno un poco con sé stesso? È possibile, per il Sé, vivere una realtà senza finzione di sorta – senza, cioè, un ideale a cui tendere?
- Per un approfondimento sulla teoria del desiderio mimetico in René Girard, cfr. René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Grasset & Fasquelle, Paris 1961. In questo volume, la teoria del desiderio triangolare non si costruisce solo tramite l’analisi del celebre romanzo flaubertiano, ma anche attraverso quella di Don Quijote, altra opera esemplare circa la contrapposizione tra ideale romanzesco e realtà.
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