“F*ga!”: anatomia di un intercalare
Quando si parla di intercalari, l’italiano non fa certo complimenti: da Nord a Sud, ce n’è per tutti i gusti e le pronunce, e si sa, dialetto che vai, parole caratteristiche che trovi. Ma non serve che mastichiate un siciliano da manuale per capire cosa significa ‘minchia’, né tantomeno per inserire questa parola(ccia) nel vostro vocabolario, poiché ‘minchia’ sta passando dall’essere un termine tipico del siciliano, e del relativo italiano regionale (in breve, la varietà della lingua che sta tra il dialetto e l’italiano standard, mescolato con quest’ultimo), a un termine quasi nazionale. Non si può dire lo stesso del ligure ‘belin’. Eppure, il significato e il contesto d’utilizzo sono molto simili.
Se ci fate caso, molti intercalari non sono altro che parole scurrili appartenenti alla sfera sessuale, come ‘minchia’, ‘belin’, ‘socc’mel’ (bolognese per “succhiamelo”), il semplicissimo e multiuso ‘cazzo’ dall’etimologia incerta. Non crediate, però, che si tratti un gruppo esclusivamente al maschile, perché tra le simpatiche ‘maremme’ e ‘ostreghe’ nate per evitare la bestemmia, c’è un’espressione che, pur rimanendo circoscritta in una precisa area geografica, è subito riconoscibile all’orecchio malizioso.
Figa, ma non avete ancora capito?!
Il frutto proibito
Come si può dire ‘vagina’ senza dire ‘vagina’? Ci sono un’infinità di alternative, tra sostantivi e nomignoli affettuosi, per indicare le parti intime femminili senza usare la parola con la V che, per la cronaca, dovrebbe essere ‘vulva’. È la Jolanda, la conchiglia, la passera, la farfalla e farfallina, la patata e patatina; insomma, chi più ne ha più ne metta, Wikipedia ha un interessante elenco di varianti popolari e letterarie, se volete dare un’occhiata. Quello che balza subito all’occhio, in particolare, è l’immediato collegamento visivo tra parola e oggetto (fatta eccezione per la Jolanda, la Littizzetto ci scuserà): dal punto di vista anatomico, la vulva può ricordare molte altre cose, e viceversa – i riferimenti sessuali a frutta e animali risalgono alla notte dei tempi.
In questo caso, l’intercalare ‘figa’ è la forma settentrionale di ‘fica’, che deriva dal tardo latino ‘fĭca’, inteso sia come frutto del Ficus carica che come vulva. La somiglianza con il frutto tagliato in sezione, in effetti, è evidente, e i Romani non sono stati i primi ad accorgersene, perché ‘fĭca’ è un calco: già gli antichi Greci utilizzavano la parola ‘συκον’ (sykon) e cioè ‘fico’, con il medesimo doppio senso, e prima di loro le popolazioni mesopotamiche e i Fenici con ‘pīqu’ o ‘sīqu’ secondo l’Akkadian-English Dictionary. Facendo qualche calcolo, l’associazione tra il frutto dell’albero di fico e l’apparato genitale femminile esiste da più di quattromila anni.
Il punto G
Perché ‘figa’ e non ‘fica’, allora? Dopotutto, la prima è la variante della seconda, e ‘fico, -a’ in quanto sostantivo è una voce presente nella Treccani e in buona parte dei dizionari di oggi, così come ‘ficata’. La ragione di questo cambiamento risiede in un processo che in linguistica prende il nome di sonorizzazione settentrionale. Ma andiamo con ordine.
Nell’alfabeto fonetico internazionale (IPA) si riscontrano alcune coppie di consonanti sorde-sonore, che vengono appaiate perché condividono lo stesso modo e luogo di articolazione; in parole povere, vengono articolate con gli stessi movimenti della lingua (sul palato o contro i denti, ad esempio) e delle labbra. Ciò che stabilisce se una consonante è sorda o sonora è l’attivazione delle corde vocali, che avviene solo con le consonanti sonore e le vocali. Se volete verificarlo, potete appoggiare due dita sulla gola e provare a fare qualche suono: quando sentite vibrare, significa che state emettendo un suono sonoro, altrimenti sarà sordo. In italiano, le coppie di consonanti sorde-sonore sono [p b], [f v], [t d], [s z], [ʦ ʣ], [ʧ ʤ] e [k g], l’ultima delle quali fa effettivamente al caso nostro.
Consonante | Pronuncia IPA | Esempio |
---|---|---|
Occlusiva bilabiale sorda | [p] | P di ‘pasta’ |
Occlusiva bilabiale sonora | [b] | B di ‘basta’ |
Fricativa labiodentale sorda | [f] | F di ‘fasto’ |
Fricativa labiodentale sonora | [v] | V di ‘vasto’ |
Occlusiva alveolare sorda | [t] | T di ‘arto’ |
Occlusiva alveolare sonora | [d] | D di ‘ardo’ |
Fricativa alveolare sorda | [s] | S di ‘sasso’ |
Fricativa alveolare sonora | [z] | S di ‘base’ |
Affricata alveolare sorda | [ʦ] | Z di ‘mazzo’ |
Affricata alveolare sonora | [ʣ] | Z di ‘zaino’ |
Affricata post-alveolare sorda | [ʧ] | C di ‘ciao’ |
Affricata post-alveolare sonora | [ʤ] | G di ‘giusto’ |
Occlusiva velare sorda | [k] | C di ‘carta’ |
Occlusiva velare sonora | [g] | G di ‘gas’ |
La sonorizzazione settentrionale, perciò, vede la consonante sorda diventare sonora quando si trova in posizione intervocalica (cioè tra due vocali), e riguarda le cosiddette lingue romanze occidentali e, in piccola parte, il toscano. Per restare in ambito scurrile, è il motivo per cui al nord si dice ‘cagata’ e non ‘cacata’.
All’interno delle lingue romanze occidentali si possono trovare il francese, lo spagnolo, il catalano e le lingue gallo-italiche, tra le quali spicca il lombardo. E qui, il cerchio inizia a chiudersi.
Lombardia, portami via
Il “lombardo” è in realtà costituito da numerose varietà suddivise a seconda delle aree:
- Il lombardo occidentale, parlato a Milano, in Brianza e nella medio-bassa Valtellina, a Como, Lecco, Varese e nelle zone settentrionali di Pavia e Lodi. Inoltre, alcune varietà di lombardo occidentale sono diffuse anche in area novarese e nel Canton Ticino meridionale.
- Il lombardo orientale, parlato a Brescia e Bergamo, nelle zone settentrionali di Mantova e Cremona e nella parte lecchese della valle di San Martino, che è stato influenzato dalla lunga appartenenza alla Repubblica di Venezia.
- Il lombardo alpino, in Canton Ticino e nell’alta Valtellina.
Nella Lombardia meridionale si parla di “continuum dialettale” emiliano-romagnolo per via delle reciproche influenze linguistiche, il che rende più difficile una classificazione precisa delle lingue parlate a Cremona, Mantova, Pavia e Lodi; ma un bresciano non si dispiacerebbe più di tanto, almeno per il cremonese. Rivalità cittadine a parte, ‘figa’ è diffuso soprattutto nella triade Milano-Bergamo-Brescia, tanto da essere diventato un’espressione caratteristica e piuttosto divertente per chi viene da altre regioni. A dispetto della popolarità, però, ‘figa’ rimane una parola dal significato trasparente, nonché polisemica se pensate a “Viva la figa!” o al concorrente della Ruota della Fortuna che perse otto milioni di lire pur di entrare nella storia della televisione.
Per evitare l’originale, potrebbe capitarvi di sentire alternative come ‘fìa’, ‘fìe’ o ‘fìaaa’ con la A trascinata, ‘fiddec’ che sembra richiamare un pianeta di Dragon Ball, o ‘figaro’ per i più colti.
A tu per tu col tabù
L’ampio utilizzo di una parola scurrile e il conseguente tentativo di mascherarla potrebbero sembrare contraddittori; perché dire ‘figa’ e non ‘lampada’ per esprimere stupore, fastidio o rabbia?
Per lo stesso motivo per cui diciamo ‘cazzo’ e ‘merda’: le parolacce sono una valvola di sfogo emotiva, uno strumento per veicolare ciò che proviamo (senza scomodare niente di particolarmente serio) e proiettarlo al di fuori di noi stessi, in una sorta di catarsi linguistica. Il turpiloquio cambia da una lingua all’altra in base ai tabù socioculturali, che in Italia rientrano soprattutto nella sfera religiosa e sessuale. Pensate solo agli innumerevoli epiteti conferiti alla divinità (e alle altrettante varianti), o agli insulti più popolari (e frequentemente sessisti) i cui esempi si sprecano. Per quanto riguarda ‘figa’, sia in quanto sostantivo/aggettivo (declinabile al maschile) che intercalare, questa è forse una delle parolacce più “pulite” in termini di utilizzo. Forse vi starete chiedendo perché in questo articolo non si è fatta menzione di un altro celeberrimo intercalare lombardo: pota, ma quella è un’altra storia!
di Joanna Dema
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