La prima pietra
Greenwich Village, New York City. 28 giugno 1969. 1:20 del mattino circa.
Secondo la leggenda, una drag queen lancia una bottiglia (per alcuni un mattone) contro i muri dello Stonewall Inn, un bar gay da poco aperto anche a donne e drag queens, gridando: «I got my civil rights!».
Il suo nome era Marsha P. Johnson; vorremmo raccontarvi la sua storia.
Marsha P. Johnson, nata Malcolm Michaels Jr. il 24 agosto 1945 nel New Jersey, è stata una delle più importanti e celebri attiviste per i diritti LGBTQ+ in America. Lasciata la città natale dopo il diploma liceale, si trasferì a New York e cominciò a lavorare in un locale, ribattezzandosi prima “Black Marsha” e, in seguito, cambiando legalmente il suo nome in “Marsha P. Johnson”. Si autodefinì gay, “travestito” e drag queen – da notare come il termine “transessuale” non fosse molto usato, all’epoca – e alcunə studiosə (come Susan Stryker, professoressa di studi sul genere e sulla sessualità all’Università dell’Arizona) ipotizzano una sua possibile identificazione fuori dal binarismo di genere: la “P.” nel suo nome, infatti, stava per “pay it no mind”, “non pensarci”, frase che Johnson utilizzava per rispondere alle domande sulla propria identità di genere. In questo articolo, continueremo ad usare pronomi femminili, poiché sembrano essere quelli più utilizzati da Johnson stessa.
Diventata rapidamente una delle figure più conosciute del Greenwich Village, Johnson posò per Andy Warhol e aiutò molti nuovi residenti del Village, queens o giovani omosessuali, ad installarsi e a trovare lavoro, creando di fatto uno spazio accogliente e sicuro per i membri della comunità LGBTQ+ di fine anni ’60. Nel frattempo, cominciò a formare il proprio stile drag, lontano da quello esuberante ed opulente a cui siamo forse abituati a pensare (high drag o show drag), ma, anche a causa del suo budget limitato, più semplice, teso a evidenziare le intersezioni tra mascolino e femminino, con tanto colore e, spesso e volentieri, arricchito da una corona di fiori freschi.
In questo periodo conobbe anche Sylvia Rivera, appena arrivata nel Village a seguito di un’infanzia di soprusi e molestie. Rivera affermerà come Johnson sia stata come una madre per lei. Le due presto divennero migliori amiche e parteciparono insieme al Gay Liberation Front e alle rivolte di Stonewall.
Arriviamo dunque alla fatidica notte del 28 giugno 1969. Johnson, a dire la verità, ha sempre smentito di aver dato inizio alle proteste, dichiarando di essere arrivata verso le due di notte, a tumulti già iniziati e con la polizia che aveva già appiccato il fuoco all’Inn. Anche Sylvia Rivera negò di essere stata la prima a lanciare un cocktail Molotov, ma la sua partecipazione fu più che attiva: per sei notti, l’allora diciassettenne attivista si rifiutò di dormire, dichiarando: «Non voglio perdermi neanche un minuto – è la rivoluzione!»
Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera saranno figure centrali del Gay Liberation Movement di quegli anni, prendendo parte al primo Pride del giugno 1970, presenziando ad un sit-in di protesta davanti all’Università di New York con altri membri del Gay Liberation Front, dopo che l’amministrazione scolastica aveva cancellato un ballo perché sponsorizzato da organizzazioni gay (agosto 1970), creando l’organizzazione STAR (Street Transvestites Action Revolutionaries), per aiutare le drag queens e le persone transessuali ad ottenere dei diritti e a poter vivere senza prostituirsi. Le due fondarono, nel 1972, anche la STAR House, per aiutare giovanǝ omosessualǝ, non-binary e transessualǝ del Lower East Side. Johnson e Rivera furono nominate drag Mothers della STAR House e si impegnarono non solo a pagare l’affitto e a procurare cibo e vestiti (dovendo ricorrere alla prostituzione per sovvenzionarsi), ma anche a ristrutturare l’edificio, che all’inizio non aveva né impianto idraulico, né riscaldamento, né elettricità. Soprattutto, crearono una vera e propria famiglia per tuttǝ coloro che avevano dovuto rinunciare a quella d’origine.
All’inizio degli anni ’70, Marsha P. Johnson cominciò ad avere crisi di nervi. Gli amici racconteranno che, nei momenti di particolare stress emotivo, usava venire fuori la sua “parte maschile”, che chiamava Malcolm, dalla voce profonda e i modi irritabili e violenti, completamente in contrasto con la solita Marsha, che invece era sempre dolce e disponibile con tutti. Alcuni hanno ipotizzato un caso di schizofrenia. In seguito a episodi di questo tipo, Johnson si ritrovò spesso in ospedale o in prigione, a seguito di pestaggi, e venne bandita da numerosi bar di New York. Più volte fu trovata a camminare nuda per strada, in condizioni chiaramente instabili, tanto che le furono prescritti farmaci antipsicotici, con effetti collaterali che potevano durare anche un mese.
Per molti studiosi il nome di Marsha P. Johnson non è venuto fuori spesso dalle labbra di altrǝ attivistǝ e testimoni di Stonewall, proprio perché si temeva che la sua lotta fosse “intaccata” dai suoi problemi di salute mentale e dalla sua non-conformità di genere.
Nel 1973 Johnson e Rivera, così come moltissimǝ altrǝ transessualǝ e drag queens, non vennero ammesse al Gay Pride annuale, perché, secondo il comitato gay e lesbiche, «davano loro una cattiva nomea». In tutta risposta, loro si misero alla testa del corteo e Rivera, prendendo il microfono, disse, tra i fischi dei manifestanti: «se non fosse per le drag queens, non ci sarebbe il Gay Liberation Movement. Siamo le pioniere!».
Nel frattempo, lǝ abitanti della STAR House vennero sfrattatǝ perché troppo indietro sull’affitto e i movimenti per i diritti civili continuarono ad escludere le persone non cisgender, con grande frustrazione delle due attiviste. Rivera ebbe vari problemi, legati ai traumi infantili, e si ritrovò spesso senza una casa. Abusò di sostanze stupefacenti e tentò addirittura il suicidio. Marsha P. Johnson la aiutò a rimettersi in piedi, dopo che fu dimessa dall’ospedale, e Sylvia Rivera decise di lasciare New York e mettere l’attivismo da parte per qualche anno, così da potersi concentrare sul proprio benessere, pur continuando a partecipare ai raduni per il Pride.
Marsha P. Johnson, invece, restò nella City e continuò il suo attivismo, ma fece anche parte di gruppi musicali di drag queens (The Hot Peaches e The Angels of Light). Negli anni ’80, con l’arrivo dell’emergenza AIDS, si impegnò per la prevenzione e la cura nelle comunità LGBTQ+ e fece parte del collettivo ACT UP, occupato a garantire l’assistenza medica e legale ai malati di AIDS.
Nei primi giorni di luglio del 1992, il corpo di Marsha P. Johnson fu trovato nel fiume Hudson. La polizia lo considerò un suicidio e il caso venne chiuso, ma gli amici di Johnson e altrǝ attivistǝ, tra cui Sylvia Rivera, ribadirono più volte che Johnson non aveva alcuna intenzione di suicidarsi, anzi, voleva continuare a lottare e ad aiutare la comunità. Inoltre, fecero presente che la sua testa presentava evidenti segni di colluttazione violenta. Moltǝ testimoni affermarono di aver visto Johnson correre sulle rive dell’Hudson la notte del 4 luglio, inseguita da due o più uomini. Alcuni riportarono di aver sentito un uomo vantarsi, tra vari epiteti omofobi, di aver picchiato e ucciso una drag queen di nome Marsha. La polizia ignorò queste segnalazioni, dicendo che la vittima era «un uomo gay nero» e di non essere interessata a proseguire le indagini.
Sylvia Rivera tornò a New York. Il corpo di Marsha P. Johnson fu cremato e, dopo il funerale, in una chiesa locale (Johnson fu una cattolica devota fin dall’infanzia), le ceneri furono portate in processione e poi sparse nel fiume Hudson.
Qui Sylvia Rivera riprese l’attivismo, continuando a spingere per l’inclusione di drag queens, persone transessuali e non-binary nelle attività della comunità gay. Riuscì a far approvare diverse leggi in favore della comunità e fondò la Transy House, sul modello della STAR House. Girò il mondo e, nel 2001, fu invitata al Gay Pride in Italia in qualità di pioniera dei diritti transessuali. Nel 1999 conobbe Julia Murray e le due rimasero insieme fino alla morte di Rivera, avvenuta nel 2002 per via di complicazioni legate a un cancro al fegato.
Oggi, Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera sono riconosciute come assolute pioniere dei diritti civili per la comunità LGBTQ+ e hanno ricevuto numerosi riconoscimenti. Ad esempio, a Dallas, Texas, nel 2019, in onore del cinquantesimo anniversario della rivolta di Stonewall, è stato realizzato il più grande murale al mondo in onore della comunità trans, raffigurante le due attiviste. A Johnson è stato intitolato un parco a New York e la città ha annunciato che verranno realizzate delle statue di Johnson e Rivera vicino al Greenwich Village entro il 2021: saranno le prime statue della città raffiguranti attiviste transgender. Elizabeth, New Jersey, città natale di Johnson, sostituirà la propria statua di Cristoforo Colombo con una in onore di Marsha.
In un periodo storico in cui i diritti delle persone transessuali e LGBTQ+ vengono rimessi in discussione ovunque, compresi gli Stati Uniti, dove molti Stati hanno recentemente varato provvedimenti transfobici, ci è sembrato importante diffondere la memoria di due attiviste fondamentali, sperando che, in futuro, le loro azioni non vengano più dimenticate.
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