Gay Villain
Nel corso della Storia del cinema si è verificata una significativa evoluzione, per quanto riguarda la rappresentazione dell’omosessualità sul grande schermo.
Storicamente parlando, in scena, il concetto di omosessualità è sempre stato naturalmente rappresentato e raccontato: si pensi al Satyricon di Petronio, nel quale veniva tranquillamente rappresentato un triangolo amoroso che comprendeva intrecci sessuali tra uomini.
Andando avanti negli anni, non sarà difficile notare come le prime pellicole cinematografiche rappresentassero, in maniera più libera di quanto potremmo aspettarci, interazioni tra coppie dello stesso sesso: sarà infatti sorprendente per moltə, ma il primo bacio tra due uomini è stato rappresentato nel 1922 (ne La corsa al piacere/Manslaughter di Cecil B. DeMille, anche se in un contesto di “dissolutezza” e “decadenza”), mentre un bacio fra due donne si trova addirittura in un cortometraggio tedesco del 1918, Ich möchte kein Mann sein (letteralmente: “Non voglio essere uomo”), diretto da Ernst Lubitsch. Memorabile, poi, il film Marocco (Morocco, 1930, Josef von Sternberg), nel quale Marlene Dietrich, travestita da uomo, bacia una donna in pubblico. Prima di questo film, nel 1895, in una pellicola sperimentale dei laboratori di Thomas Edison, in scena troviamo una coppia di uomini intenta a ballare un valzer, cullati dal suono di un violino suonato da un terzo uomo.
Ai suoi esordi, infatti, il mondo del cinema era ben più libero di quanto si possa immaginare: a dispetto della ristrettezza mentale dei legislatori e di una fetta di pubblico, la creatività di autori e registi correva, anche se spesso dovevano ricorrere ad exploit narrativi, come travestimenti o equivoci. Furono l’avvento dei fascismi, in Europa, e il codice Hays, negli Stati Uniti, a cambiare le carte in tavola, limitando drasticamente gli argomenti che era concesso rappresentare. Tuttavia, prima di addentrarci nel discorso che mi piacerebbe affrontare, ritengo doveroso inserire un piccolo cenno storico, al fine di spiegare come, quando e perché comparirono queste limitazioni nella Settima Arte.
Nel 1915, la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, nella nota sentenza Mutual Film Corp. v. Industrial Commission of Ohio, stabilì che le pellicole cinematografiche non fossero coperte dal Primo Emendamento, in quanto considerate semplice business e non espressione d’opinione, e pertanto fossero passibili di censura. A seguito di questa sentenza, città e contee iniziarono a porre divieti sui film giudicati “immorali”. Lo sdegno fu tale da portare alla nascita della Motion Pictures Producers and Distributors Association (che nel 1945 cambiò nome in Motion Picture Association of America), un’associazione intenzionata a riportare “credibilità e moralità” nel mondo hollywoodiano. Al vertice della MPPDA si trovava William Hays, ex direttore generale delle poste sotto la presidenza repubblicana di Warren Harding (1921-1923).
Nonostante i primi tentativi di stesura di un codice etico fossero stati ignorati dall’industria cinematografica, dopo il 1927, con l’avvento del sonoro e dei dialoghi, si ritenne necessaria la stesura di una serie di norme ufficiali: nacque così il Production Code, noto poi come “Codice Hays” in quanto lo stesso ne era stato fervente promotore. Il codice fu successivamente rafforzato dalla creazione della Catholic Legion of Decency, che stilava liste di film “indecenti” da far boicottare ai cattolici. Il codice, nella sua versione del 1930, non aveva efficaci strumenti di applicazione. Un emendamento, adottato il 13 giugno 1934, diede vita alla Production Code Administration, che rilasciava certificati di approvazione necessari per far approdare i film nelle sale. Per più di un trentennio, tutti i film prodotti negli Stati Uniti aderirono più o meno rigidamente al codice. Si noti che il Production Code era un codice di auto-regolamentazione e non creato o imposto da autorità federali, statali o cittadine. Gli studi di Hollywood, infatti, lo adottarono nella speranza di evitare la censura governativa, preferendo regolarsi da sé, piuttosto che sottostare a regole imposte dal governo.
Chiaramente, nella mentalità puritana dell’epoca, l’omosessualità era ritenuta un vizio da condannare e di conseguenza i personaggi omosessuali, adeguatamente nascosti dietro a stereotipi e atteggiamenti codificati, erano costretti a rivestire il ruolo degli antagonisti, così da non venire innalzati a modelli di riferimento. Nonostante il passare degli anni e l’abolizione del codice Hays nel 1968, la tendenza a far sì che gli antagonisti rispecchino caratteristiche tipicamente non eteronormative si è protratta quasi fino al giorno d’oggi, in maniera particolarmente marcata nei film d’intrattenimento per bambini.
Si pensi ad Agatha Trinciabue (Matilda 6 Mitica/Matilda, 1996, Danny DeVito). È, ad oggi, uno dei personaggi più cattivi nell’immaginario collettivo infantile: spietata, sadica e caratterizzata da un forte odio nei confronti dei bambini. Osservandola con uno sguardo critico coscio, possiamo ritrovare in lei tutti i codici che rappresentavano la donna lesbica sotto il codice Hays (specialmente nella voce mascolina, nel fisico imponente e nel fatto che ricopra un ruolo dirigente, ancora molto associato al genere maschile) e, difatti, la sua sessualità rimarrà celata per tutto il film. Numerosi esempi sono presenti anche nelle pellicole Disney: Ursula, la perfida strega de La Sirenetta (The Little Mermaid, 1989, R. Clements e J. Musker) è apertamente ispirata alla drag queen statunitense Divine; l’irascibile Ade di Hercules (id., 1997, sempre Musker e Clements) è molto effemminato, a differenza della sua nemesi Hercules, virile portatore di mascolinità stereotipata. La lista di esempi è molto lunga, ma a mio parere riportarla per intero sarebbe insensato e totalmente infruttuoso: preferisco piuttosto esprimere una mia opinione in merito all’argomento, che sarete liberə di condividere o biasimare.
La comunità LGBTQIA+ è stata spesso accusata da leader politici e guide idelogiche di vario genere di portare avanti un vero e proprio “indottrinamento omosessuale”, per la sola ragione di lottare per i propri legittimi diritti. Furono in numerosi a scagliarsi contro la remota possibilità che Elsa, la protagonista del lungometraggio animato Disney Frozen – Il regno di ghiaccio (Frozen, 2013, C. Buck e J. Lee), potesse essere attratta dalle donne: un «tentativo di indottrinamento dei bambini» difficilmente supportato da prove. Chiaramente una bufala, come molte che dobbiamo sentire ogni giorno.
Al contrario, mi sembra evidente che per tutti questi anni siamo stati soggetti ad un “indottrinamento eterosessuale”, dal momento che ogni medium ci ha “insegnato” che l’essere effemminato per gli uomini, o mascolina per le donne, è sinonimo del male. Proviamo per un attimo a vestire i panni di un bambino interessato alla moda (che, lo ricordiamo, non è sinonimo di omosessualità). Ogni volta che accende la televisione, vede questa caratteristica associata a cattivi da uccidere e di cui liberarsi: probabilmente tenderà a biasimarsi o a celare la sua passione, al fine di non apparire come il cattivo di fronte ai suoi pari.
A mio parere, è una situazione imbarazzante e ancor più imbarazzante è il fatto che tutt’oggi se ne discuta, che ancora oggi ci si trovi costretti ad essere accusati di “indottrinamento omosessuale” per la (presunta) comparsa di un’eroina lesbica in un cartone animato. La parità, il sentirsi compresi e accettati dalla società, la libertà di poter esprimere se stessә è strettamente condizionata da ciò che ci circonda fin dall’infanzia, ed è necessario che ognuno di noi possa vedersi rappresentato nei panni dell’eroe.
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